Intervista a Sergio Bertolino

Intervista a Sergio Bertolino

Intervista di Sonia Ciuffetelli a Sergio Bertolino

1. Sergio Bertolino, iniziamo la nostra conversazione sulla poesia con una riflessione sull’uso
delle parole e del ritmo.
La versificazione, nel tuo modo di fare poesia, vuole avvicinarsi più alla narrazione o alla
poesia lirica?
Dove si sta orientando la tua ricerca stilistico-semantica?

Non so stabilire con certezza un orientamento, ma a ben vedere esiste un fil rouge in quel che
faccio, una cifra stilistica. Da tempo nutro interesse per le forme brevi, particolarmente dense
sia in senso fonico-ritmico che semantico. Tento una scrittura opaca in cui il non detto abbia
quasi più valore del detto, dove si stratifichino i significati. Non sarei radicale come Leopardi
quando afferma che le poesie «non sono poesie se non in quanto son liriche», però la mia è
senza dubbio una strada lirica.

2. Il tuo libro in versi, La sete (Marco Saya, 2020), evoca tra gli altri temi quello di bellezza e
morte. Nella tua riflessione sulla realtà o sulla irrealtà quanto è importante inabissarsi? La poesia nasce principalmente dalla erudizione intesa come conoscenza intellettuale
oppure ha bisogno della mediazione di un passaggio ulteriore, che attraversi un diverso
piano percettivo-conoscitivo?

«Poi l’ho vista stesa sul letto
eludere il nero del vestito. D’oro la fronte
non aveva più solchi; guance di velluto liscio;
elegante e irraggiungibile. Bella
come mai la morte.»
Ho un debole per gli abissi e non faccio distinzioni tra ciò che è reale e ciò che non lo è (in certe
condizioni psichiche tutto si confonde e agisce allo stesso modo). Leggere – e non solo i
contemporanei – è indispensabile. L’erudizione di cui parli può fungere da sostegno alla
creazione poetica, può certamente concorrere – il poeta è anche uno studioso e un faber –, ma
non c’è vera poesia che non parta da un’intuizione: parafrasando Croce, fare poesia è dare forma
all’intuizione.

3. Chiave di volta (Nulla Die, 2018) è la tua prima raccolta in versi, il tuo esordio. Cosa ami di
questa tua prima pubblicazione, cosa porti ancora con te dell’iniziazione poetica? C’è
qualcosa di irrinunciabile che non disperderesti?

Chiave di volta è un libro assai meno pensato e lavorato, più viscerale rispetto a La sete. Nasce
in una fase problematica, di malessere, e intende porsi come luogo di scollamento, punto di
rottura. In ciò è fortemente personale. Credo che abbia a che fare più con la vita che con la
poesia – benché le due cose, in me, spesso coincidano. In un momento diverso non l’avrei
pubblicato, ma oggi ne apprezzo la bruciante verità e il “non finito” che mi restituiscono i suoi
versi (peraltro, la sezione Prima clavis de La sete comprende cinque riscritture da Chiave di
volta).

4. Cosa può avvicinare le persone alla poesia? Perché leggere un libro di poesia
contemporanea?

Leggere poesia è necessario solo per alcuni, ed è giusto che sia così. L’essenziale è che non si
provi ad adeguarla a quel che viene ritenuto, spesso a torto, il gusto comune (come in effetti
accade, e mi pare un atto di indebolimento, di degradante normalizzazione). Mi augurerei
piuttosto che le persone “sentano la chiamata”. La poesia è un tempio, ha bisogno di adepti, non
di frequentatori. Va da sé che il tempio dev’essere visibile a tutti.

5. Cito alcuni dei versi da La sete
«Piazza Stazione. Le tre in punto
e il bar deserto.
Che sia data una direzione.
Trafigga quest’atavica foschia.
Che i germi
della convalescenza m’infettino
– e rinverdisca la volontà.
(La chiglia scossa,
come una coda di lucertola smozzata.)
Scrivere perché non si è imparato a vivere.»

Cosa manca alla vita vissuta che la poesia restituisce?

Dipende da caso a caso. Potrei parlare di disagio, alienazione, inappagamento rispetto alla realtà
effettuale, ma preferisco chiamare in causa Giorgio Agamben. Lui scrive che la poesia è «una
contemplazione della potenza di dire». In un certo senso (lo so, è paradossale), il gesto poetico
par excellence sarebbe quello di tacere. Ecco, la poesia abita il possibile (è lo stato di
inoperosità ottenuto quando si disattiva la funzione informativa del linguaggio) e il reale esige
di farsi possibile.

6. La notte. La morte. L’io

«Magari dirò “Io” senza che mi tremino
le labbra, prima che l’asfalto venga
a togliermi il respiro.
Noi che cerchiamo ancora
quel posto
in cui nasconderci la notte.»
«Quando torni notte
a trovarci dal basso,
la metà che sola vedi
non fa di sé
che una parola già lontana.
Dov’è fissità
(ma senza centro)

è lì che siamo
ostacolo a risolverci.»

In rapporto all’io, mi affascina il contrasto – mai risolto – fra resistenza e sparizione (di qui
l’oscurità intesa positivamente in quanto regno del possibile). Il vero poeta – che per Keats è la
più impoetica delle creature, non avendo identità – è al contempo “meno e più io degli altri”.
Sempre decentrato, ospite e ospitante di qualcosa o qualcuno, ha l’obbligo di trascendere il
proprio essere individuale. Ma del resto, conosciamo grande poesia che non trasmetta un punto
di vista peculiare sul mondo? Non c’è dialettica hegeliana, niente sintesi o superamento. Si trova
soluzione solo nella morte, che per il poeta rappresenta il clou del viaggio, l’istante in cui tutto
si decide, in cui l’opera può dirsi davvero compiuta.

7. Abbiamo bisogno di bellezza?

Assolutamente. Ma la bellezza può anche essere terribile. Penso alla brute beauty di Hopkins,
senza la quale è impossibile percepire nel reale l’eco gloriosa della creazione, l’esuberanza
dell’inizio, la «freschezza più cara». Non riesco a concepire verità senza bellezza.

8. Il tuo primo incontro con la poesia. Ricordi qual è stata la tua prima lettura poetica
incisiva?

Sì, ricordo bene. Parliamo di circa 25 anni fa: si trattava di una particolarissima edizione
trilingue delle Poesie scelte di William Blake (la versione italiana era di Ungaretti, quella
francese di Bataille). Me ne innamorai alla follia, e ancora oggi la conservo gelosamente.

9. Con Giuseppe Todisco sei fondatore e direttore di «Avamposto», uno spazio di ricerca più
che una rivista di poesia, una opportunità di studio e ricerca che rivolge alla versificazione
contemporanea uno sguardo aperto alla multidisciplinarità. Vuoi parlarci di questo
progetto?

Rischierei di andare per le lunghe se tentassi di raccontare «Avamposto». È sufficiente la tua
definizione: studio e ricerca sono parole chiave. Posso dire che quando abbiamo fondato la
rivista, più o meno due anni fa, desideravamo proporre un’alternativa, qualcosa di diverso, di
accurato, che non si riferisse alla sola contemporaneità (credo che una conoscenza della
tradizione sia, ora come non mai, fondamentale). Vado fiero dei riscontri ricevuti. Con
l’inaugurazione della serie cartacea, poi, è stato compiuto un ulteriore passo avanti. È un
progetto ambizioso, a suo modo controcorrente, condotto con passione.

10. Una poesia rappresentativa della tua riflessione poetica 

Vivere nei vuoti che sottendono
la resa; rivivere la morte senza morte
delle grotte di Lascaux, quando il crocefisso
che sbreccia la parete di un palazzo
dice quella è la strada per Odessa,
non esistono i bambini.

Somiglia sempre più a sé stesso
il cielo: carne cruda sulla guancia del dio.
Io resto muto col basilico e la grata,
respirando ciò che la domenica soffre
a farsi spirito, e accolgo tutto, anche i silenzi
del polpo che mi dorme fra le dita.
Non chiedo che questo. Rifiuto
l’attesa che è violenza e pregiudizio
– nuda noce intatta
sul ciglio del balcone.

Grazie Sergio, a presto.

Biografia

Sergio Bertolino è nato a Reggio Calabria nel 1984. Laureato in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Torino, è docente di Lettere, cantautore, co-fondatore e co-direttore di Avamposto. Ha pubblicato le raccolte di versi Chiave di volta (Nulla Die, 2018) e La sete (Marco Saya, 2020 – Premio Umbertide XXV Aprile 2022 e menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano 2021). Suoi testi sono apparsi su antologie, riviste e blog letterari.