Testi

Testi

NARRATIVA

Sonia Ciuffetelli, Scatto senza posa, edizioni Scatole Parlanti

Mi chiamavano Giubba (incipit)

Ci infilavamo sul retro, nel cortile, e lì sì che pensavamo di non essere
visti, da nessuno. Eravamo in quattro, a volte in sei, almeno fino
a quando le cose cambiarono. Pochi tiri e poi gettavamo il mozzicone
all’aria come per farlo sparire. Mi chiamavano Giubba per via di quel
ridicolo giubbino nero che mia madre aveva comprato alla boutique
cinese, con bordo elasticizzato e una grossa zip che poteva arrivare
fino alle orecchie, una roba da sfigati. Non a caso Pizzi Franco, uno
del paese vicino, puntualmente ogni mattina mi diceva:
«Ehi Giubba, ma per comprarti un giubbino decente… ti serve il
mutuo?».
Era il rituale della mattina, solo pochi tiri e poi il suono della campanella.
Entravamo a scuola con l’alito puzzolente e puntualmente la
Ferrosi, di italiano, intonava:
«Chi ha fumato, eh? Quest’aula puzza di fumo, la mattina, non di
esseri umani!».
La Ferrosi era la classica professoressa che odorava di professoressa.
Si presentava al mondo, tutte le mattine d’inverno, con due stivali
rosicchiati al calcagno di quelli che hanno passato la campagna in
Russia, andata e ritorno, e quattro denti storti e divisi da una fessura
strategica, una sorta di feritoia attraversata dalla saliva in formato
sputo. I capelli biondicci appiccicati sul viso piatto e i vestiti
che emanavano un olezzo misto tra canfora e legno antico. Era molto
interessante come bersaglio. Single, per non dire zitella, non faceva
che rimpiangere i suoi amati, vecchi tempi, quelli in cui gli alunni
le davano del lei e in cui i genitori non protestavano mai. Grassa da
non potersi più muovere. Non era un’insegnante come tutti gli altri
e le altre. Lei aveva fatto carriera. Era niente di meno che l’autoritaria
vice-preside tuttofare, segni particolari urlo facile e sputo veloce, alla
prima sillaba.
Eppure era l’unica a capirci: l’ho sempre detto, agli altri. Potevi urlarle
contro qualsiasi cosa, lei sbraitava, ti rispondeva e stop.
Non puniva, lei, non minacciava. Mai. E ci osservava con attenzione.
Sempre.
A me poi era particolarmente simpatica. Mi faceva notare spesso
di essere un prodigio in lingua italiana; ottima capacità espositiva,
profitto eccellente e produzione scritta encomiabile.
Ci infilavamo nel cortile anche quando l’aria era così fredda e rarefatta
che respirarla col fumo annientava l’effetto di torpore. Se in
classe avevamo problemi di attenzione non era certo per bassezza
di Q.I. o per presenza inguaribile di disturbi psichiatrici. Un giorno
arrivò un tipo e noi fumavamo.
«Dammi quella sigaretta, forza…» disse a uno di noi, l’albanese lo
chiamavamo. Con uno schiocco delle dita lanciò lontano la cicca; noi
ci dileguammo in un secondo e con tre falcate eravamo già in classe
come nulla fosse.
La procedura fu semplice e scontata. La Ferrosi urlò così forte da
attraversare i primi due piani di scale, quelle della scuola, con la voce.
Interrogatorio per tutti, predica, minacce del preside. Il tipo era un
carabiniere in borghese, uno del paese.
Le mattine seguenti, con gli altri, ci vedemmo alla fontana e poi
trovammo un posto diverso, le panchine della Villa. Si stava persino
più comodi, però chissà perché, dopo poco tempo ritornammo nel
cortile. Ci piaceva e pensavamo che non se ne sarebbero accorti, i
professori.
Eravamo in quattro, anche in sei. Poi le cose cambiarono. Arrivarono
anche il moldavo e due macedoni come me. La differenza tra me e
loro era notevole. Io ero anche italiano, avevo la doppia cittadinanza,
ed ero nato e vissuto per tutti i miei interminabili tredici anni in Italia.
Loro non sapevano una parola e mi facevano pena. Se non sai le
parole sei spacciato, non puoi neanche stare alla battuta e scherzare,
non puoi rispondere, non puoi nulla […]

—————————————————————————————————

 

 

————————————–

Sonia Ciuffetelli, Un velo sulla memoria, edizioni Augh.

INCIPIT DEL LIBRO

Un gomitolo peloso ossessiona la mia gola. Ci si rigira dentro come una grossa biglia e ostruisce il passaggio del respiro. Provo a deglutire e la glottide strozza un filo sottile di saliva. Tossisco. Cos’ho? Resto immobile, nel mio letto. Un velo freddo attorciglia il mio corpo. Passerà, devo re¬stare calma. Numeri e date s’incastrano nei miei pensieri. Rifaccio i conti appannata nel dormiveglia, il soffio della notte deve avermi intorpidita.
Quanti anni ho? Penso al numero 32 ma qualcosa non torna. Procedo con un facile e scontato calcolo mentale par¬tendo dalla mia data di nascita. Ho in mente il 1959 e da qui inizio a contare di dieci in dieci per non sbagliare. Ep¬pure devo aver fatto dei salti perché mi viene fuori un 34: qualcosa stona, i 34 li ho già attraversati ma non mi ricordo da quanto tempo.
Mi tiro su a fatica dopo aver aperto gli occhi. Ho bisogno di un caffè. L’armadio nero e lucido mi fissa come un gigan¬te anonimo.

Dove sono dove mi trovo cos’è questo posto… il gomitolo cresce nella gola, si muove come un ragno dalle enormi zam¬pe pelose l’aria non scivola giù io non emetto suoni scatto in piedi e ispeziono le pareti, i quadri mi sputano addosso colori violenti che non so distinguere, lo specchio guardo lo specchio e i miei stessi occhi mi scrutano spigolosi, lo sguardo è asimmetrico la bocca piegata in una smorfia che somiglia allo stupore mondo cane dove mi trovo rullano nel mio cor¬po tamburi impazziti un rumore attanaglia le tempie, ansi¬mo corro per tutto il corridoio e mi ritrovo in una grande sala piena di libri dall’aria sinistra ne butto giù una decina e sul marmo rimbomba un tonfo sordo fischia il cervello lo stomaco gorgheggia afferro come un pugnale un tagliacarte d’argento e lo schianto a terra… tintinna il rumore metallico e vibra la stonatura all’interno delle mie budella altri quadri vedo altri quadri che ora mi sfottono con simboli assurdi che si prendono gioco di me… sbatto contro lo spigolo del tavolo di cristallo mi trafigge un’anca, come una freccia, ahi aiuto vado in cucina non c’è un solo oggetto, un solo pensile che mi dica qualcosa che faccio adesso che faccio vado avanti e torno indietro perdo l’equilibrio per la storta di un piede ap¬poggio il fianco sulla parete bianca mentre l’affanno succhia il naturale ritmo del respiro voglio un caffè afferro la caffet¬tiera e mi cade dalle mani aiuto aiuto sono una mosca capita¬ta in una bottiglia tutto gira dentro di me i soffitti si piegano sembra che crollino le monocotture ondeggiano sotto ai miei piedi che sprofondano tra i vuoti e i pieni dell’instabilità per¬do l’equilibrio mi disoriento si muove ogni oggetto ho il mal di mare non so dove sorreggermi e mi accovaccio piego le ginocchia che schioccano sul pavimento mi arriccio e di me faccio un nodo buttato a terra.

Vorrei svenire invece i miei sensi vigilano, vorrei dormire ma la mia coscienza è sveglia.
Non cado sono già per terra e i pensili non piovono su di me, sono al loro posto. Cerco di respirare a fondo. Calma, devo essere calma. Sono viva, qualcosa capirò. Tranquilla, adesso tranquilla.
Riprendo a contare, date e numeri mi perseguitano. Intan¬to recupero le mie energie e con prudente lentezza assumo di nuovo la posizione eretta. Raccolgo la caffettiera che mi è scappata di mano e preparo il mio caffè.
Mi sposto nello studio. Mai visto prima. Zeppo di carte e volumi, zeppo di librerie chiuse da vetri. Apro il cassetto dello scrittoio e incollo la mia speranza sulla prima calco¬latrice che trovo. Faccio una sottrazione. Parto dal 2003, l’anno in cui sto vivendo. Me lo ricordo, vedi?
2003-1959. Come una scolara. La calcolatrice sputa fuori uno strano numero del quale non so cosa farmene. È il 44.

È un numero gigantesco il quarantaquattro. Persino esagerato.
Mi guardo intorno, nello studio covano riviste, libri e car¬te confuse. Squaderno il materiale cartaceo e spero di capire di cosa mi occupo, ma l’incredibile varietà di argomenti e di generi non me lo permette. Nulla di specifico.
Perlustro. I tappeti soffiano racconti dimenticati. I libri sono severi e composti ma sembrano riverirmi dall’alto del¬la loro perfezione, tutti sull’attenti, schierati per dimensione e colore. Come mi fissano. Deglutisco faticosamente. La mia gola è come graffiata. La vista opacizzata. Faccio un inten¬so sforzo per la messa a fuoco e leggo titoli e titoli di libri, poi analizzo i tanti oggetti collezionati su lunghi scaffali: ci sono cassette audio e video, DVD, vecchi giradischi con LP a 33 giri, pellicole cinematografiche conservate in scatole piatte e rotonde. Mi viene in mente “pizze”. E penso alla Capricciosa.

——————————————————————————————————————————————————————-

POESIE

Da: Petali di voce, Perrone editore.

La cruna del villaggio

Perdersi tra i crocicchi nervuti di questo mondo armato

guardingo dal debole occhio

politiche insane passeggiano sulle carezze felpate di un chimono

infilato nella cruna del villaggio

occupato a difendersi o a morire.

——————————————————————————————————————————————————————-

Cerchi delle dita

I cerchi delle dita come farfalle posate

sulle ginocchia tonde

lo aspettavo così senza fuggire

nella stanza aleggiata d’echi

nel rimbombo dell’assenza

di suppellettili

scalza

ed era invisibile soltanto potevo avvertirlo

mentre schiantava lo spazio etereo fatto a pezzi

nascondersi

per non saper spiegare transitando senza soggetto

sperando di capire cosa fosse

il vuoto zeppo d’urlo

finché distinsi un profilo sgretolato

l’integrità discinta un sottobosco

il reuma della razionalità

un profilo nella stanza senza luce e mobilio

la presenza densanonimindistinta

omessi sangue e carne

vera come la notte senza stelle

che esiste e tocca senza il privilegio della presa

senza una mano da stringere, da tendere.

Da: Petali di voce (2010)


Panta rei 

Il passato sembra essere andato via.

Rovine al presente propositi al futuro.

Baciamoci ancora anche se sa di sangue.

Crescerà di nuovo il grano come il sorriso del divenire.

 

Da: Petali di voce (2010)

——————————————————————————————————————————————————————

 

Da: La Farfalla sul pube, 2018

Metamorfosi

Ingollata l’aria del tuo bacio

già era svenuto il cielo

e il riflesso della stella

nel tuo bicchiere pieno non tremava

 

né si muoveva il vento

tra le dita vestite di luce

lo spazio d’un break

diventò il tempo di una etenità

 

durata il sorso di un boccale

di vodka e limone

 

il più bel sorriso fu quello del finale

te lo proposi tra lacrime e perdita

mentre attraversavo il viale gonfio

d’aria grigia e vapori dismessi e riciclati

senza guardare…

[ero troppo giovane per capire, troppo grande per saper ignorare]

quando ti ritrovai

casualmente flottando tra cirri e tempesta

 

eri pietra e radice

nel giardino di statue.

 

 

 Scatto senza posa

di Sonia Ciuffetelli

Ci vedevamo a quel solito posto, fosse mattino, crepuscolo o notte. “Sotto casa o alla panchina”, così dicevamo; ed era spesso stranamente libera, come se fosse riservata a noi. Io mi sedevo, quando lei non era già seduta, ed aspettavo che scendesse. 

Ci eravamo conosciute al lavoro, eravamo state colleghe. Poi la frequentazione e la sintonia ci avevano fatto scoprire che le formalità nel nostro rapporto erano soltanto una perdita di tempo. Eravamo diventate amiche così, era come respirare aria salubre senza rendersene conto. Ci incontravamo lì, in quello spazio transennato da grandi fioriere a ciotola e piante ornamentali in quel perimetro di soli negozi e pedoni, in via Sallustio. La consuetudine ci aveva portato a tracciare itinerari, battuti da discorsi ora pacati ora infiammati, che parevano portarci lontano, oltre le mura. Via Patini e poi piazza Duomo dove si scorgevano i tramonti limpidi che ci facevano sostare sotto quello spicchio di cielo rosato. Restava fermo lì il crepuscolo, tra il campanile sinistro della chiesa di san Massimo e la Posta Centrale, il tempo di una chiacchierata, di una bozza di programma o di una polemica, per poi sfumare senza preavviso, cedendo il colore caldo alla sera bluastra e netta. Scorrevamo allora i portici del Corso, come fosse un doveroso atto di devozione, un rituale. Arrivavamo all’edificio della Biblioteca Provinciale e attraversavamo piazza Palazzo con quel Sallustio sempre discreto, eterno. Si passava al Farfarello, tanto per sbirciare chi ci fosse, si costeggiava palazzo Margherita e si faceva puntata alla libreria Colacchi.  Questo era soltanto uno degli itinerari. Ne avevamo almeno quattro, fissi, e una scorta di variazioni possibili per adattamento alle necessità del momento o all’umore della giornata. Conoscevamo i vicoli più ventosi e quelli più riparati.

 


da: Sonia Ciuffetelli, Scatto senza posa, editore Scatole parlanti, 2020

Mi chiamavano Giubba

 

Ci infilavamo sul retro, nel cortile, e lì sì che pensavamo di non essere visti, da nessuno. Eravamo in quattro, a volte in sei, almeno fino a quando le cose cambiarono. Pochi tiri e poi gettavamo il mozzicone all’aria come per farlo sparire. Mi chiamavano Giubba per via di quel ridicolo giubbino nero che mia madre aveva comprato alla boutique cinese, con bordo elasticizzato e una grossa zip che poteva arrivare fino alle orecchie, una roba da sfigati. Non a caso Pizzi Franco, uno del paese vicino, puntualmente ogni mattina mi diceva: «Ehi Giubba, ma per comprarti un giubbino decente… ti serve il mutuo?».

Era il rituale della mattina, solo pochi tiri e poi il suono della campanella. Entravamo a scuola con l’alito puzzolente e puntualmente la Ferrosi, di italiano, intonava:

«Chi ha fumato, eh? Quest’aula puzza di fumo, la mattina, non di esseri umani!».

La Ferrosi era la classica professoressa che odorava di professoressa. Si presentava al mondo, tutte le mattine d’inverno, con due stivali rosicchiati al calcagno di quelli che hanno passato la campagna in Russia, andata e ritorno, e quattro denti storti e divisi da una fessura strategica, una sorta di feritoia attraversata dalla saliva in formato sputo. I capelli biondicci appiccicati sul viso piatto e i vestiti che emanavano un olezzo misto tra canfora e legno antico. Era molto interessante come bersaglio. Single, per non dire zitella, non faceva che rimpiangere i suoi amati, vecchi tempi, quelli in cui gli alunni le davano del lei e in cui i genitori non protestavano mai. Grassa da non potersi più muovere. Non era un’insegnante come tutti gli altri e le altre. Lei aveva fatto carriera. Era niente di meno che l’autoritaria vice-preside tuttofare, segni particolari urlo facile e sputo veloce, alla prima sillaba.

Eppure era l’unica a capirci: l’ho sempre detto, agli altri. Potevi urlarle contro qualsiasi cosa, lei sbraitava, ti rispondeva e stop.

Non puniva, lei, non minacciava. Mai. E ci osservava con attenzione. Sempre.

A me poi era particolarmente simpatica. Mi faceva notare spesso di essere un prodigio in lingua italiana; ottima capacità espositiva, profitto eccellente e produzione scritta encomiabile.

——————————————————————————————————————————————————-

2021

Stagione impervia

la perturbazione è travolgente

i nasi ingialliscono (diventano gialli) alla prima notizia di allarme

siamo tutti sbarrati                                       

Il comandante ha le carte sporche

hanno scoperto che da bambino schiacciava gli scarafaggi con le forbici larghe

per sentirli scricchiolare piano – è finita su tutti i giornali la testimonianza –

oggi gioca a Risiko

si è fatto fabbricare i dadi personalizzati

 

 

no, non ho novità significative

a parte una nuova amica – parla francese –

 mi racconta la sua Africa da un monitor

il corriere mi ha portato le provette odorose

lei voleva che sentissi i profumi di casa sua

 siamo tutti sbarrati

non posso andare.

 

Ma le merci arrivano, sì.

 

Il traffico è aumentato

molti amici sono in stato di curiosità permanente

è tutto sotto controllo

so che hanno mandato Chris armato –ha selezionato i migliori argomenti-

poche settimane e una grandinata di like li ha graziati.