Intervista a Maria Grazia Calandrone

Intervista a Maria Grazia Calandrone

Ciao Maria Grazia, parliamo di alcuni temi della tua poetica in relazione al nuovo libro Il giardino della gioia edito da Mondadori. Un libro che si fonda sulla riflessione di argomenti diversi ma correlati, che tratta di umanità e potere, perdita e abbandono, conquista consapevole della gioia, orrore dei soprusi e del male. Di amore.

Un libro che induce a soffermarsi, ad allenarsi alla riflessione, a capire.Temi ontologici e temi di sapore storico, temi politici ed esistenziali, biografici convogliano in una trattazione poetica contemporanea per quel che riguarda stile, linguaggio e  argomenti.


  • Il giardino della gioia è il luogo in cui la tua poesia attraversa zone di luce e d’ombra; la gioia è l’altra parte del dolore, è il saper guardare “il luccicare a perdita d’occhio della mia vita”. Il libro è anche una riflessione sul dolore e sulla perdita, si compone di zone diverse ed è pieno di vita. Cos’è la gioia da te poeticamente pensata-sentita-riflessa?

La vera gioia, la gioia profonda e permanente, non può che essere consapevole. Necessita di aver affrontato il dolore a viso aperto, faccia a faccia, non averlo evitato, non essersi nascosti. Attraverso il dolore, se ne facciamo buon uso, possiamo comprendere molto, di noi stessi e del mondo. Scrivendo questo non intendo fare l’apologia del dolore, ma dire che, poiché esso è inevitabile, il solo modo di vincerlo è viverlo.

 

  • “Non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo”. Il nostro modo di percepire la realtà riflette, proietta il nostro ego sulla realtà stessa? Esiste una realtà intellegibile al di là di noi, libera dallo sguardo narcisistico e dalla necessità di ritrovarsi nelle cose del mondo?

Più che di necessità narcisistica di trovare nel mondo frammenti e specchi di noi,  scrivo che, data la nostra possibilità di percezione, limitata dalla psicologia – ma anche da biografia e biologia – la realtà esiste certamente in sé, ma raramente il nostro sguardo riesce a coglierla intera. La realtà è un poliedro, ogni osservatore ne percepisce una delle facce. Esiste infinita filosofia e letteratura, specialmente teatrale, sull’argomento. La tensione di molti poeti è rendere l’oggetto per quel che è. Non è certo questa l’intenzione di Pasolini o Whitman, che impongono coscientemente a cose e persone la propria visione di cose e persone: fascinosa, mitologica o di moltitudine dei sé. Ma è quello che tentano autori come Francis Ponge e George Oppen. Sapendo di non riuscire, come dichiarano esplicitamente quasi tutti i poeti, per esempio il melanconico Vittorio Sereni o l’allegorico Giorgio Caproni.

  • “Mentre il mondo cambiava […] tu come gli animali stavi senza domande. Senza dolore. Semplicemente esistere. Esistere e basta. Essere casa come sono casa i corpi, gli abbandoni, le guarigioni”. L’esistere evocato nella poesia dal titolo Interiore invernale è un esistere oltre il limite, “per curare il disamore che sarebbe arrivato”.

In quel testo dico di un esistere umano animale, quasi arboreo. Esistere nel sapere di non sapere, nella coscienza serena della propria ignoranza, tema che riprendo nel testo dedicato a mia figlia Anna. Sapere di non sapere, alla fine, ci salva.

  • La violenza e la superiorità razziale, il male sono temi che affronti nel libro. La nostra specie ha storicamente dimostrato miseria umana, crudeltà. Come conciliare questo aspetto con la vitalità della gioia?

Non credo alla gioia come rimozione del male ma come attraversamento del male. Siamo una specie orribile e meravigliosa e dobbiamo convivere con il nostro orrore, anche per poter essere meravigliosi. Se cancelliamo la cognizione della crudeltà, la nostra gioia è mutilata e precaria. E, soprattutto, se ignoriamo la nostra stessa capacità di violenza, se assolviamo noi stessi dal male che possiamo compiere, rischiamo di compierlo inconsapevolmente. Il Giardino della gioia, infatti, vuole anche essere un avvertimento perché ciascuno di noi osservi da vicino la propria crudeltà, si identifichi con l’assassino e inorridisca.

  • Saper trasformare la materia povera in poesia. Di questo scrivi in Corsivi di Anna, un componimento in cui tu parli di grandezza della realtà, di belle cose per cui vale la pena essere nati. La realtà ha in sé del bello e dell’utile: conoscerla, entrarci in relazione per capirla è necessario per raggiungere la consapevolezza della bellezza dell’esistere? Oppure basta coglierla, odorarla, sapere che c’è?

Dipende dall’inclinazione psicologica e dalla fortuna. C’è chi riesce a godere spontaneamente del mondo e chi arriva al mondo per via intellettiva. Unire queste due attitudini significa scrivere come Dante e dipingere come Van Gogh. Capire la realtà significa forse capire il sistema umano che la ingabbia. Il resto, è vivo.

  • Chi è oggi il poeta? Che ruolo ha nel mondo intellettuale e culturale?

Ho sostenuto molte volte che la poesia è un controcanto all’ondata di odio e paura che, al momento, sembra aver trovato qualche diga. Penso a Greta Thunberg, penso alle sardine. Greta e le sardine compiono azioni poetiche: dicono la verità e arginano l’odio. Rivelano, cioè, la nudità non solo del «re», ma del mondo.

  • Se tu fossi una parola come ti chiameresti?

Musica.

  • E se dovessi scegliere un mito tra i miti di ogni tempo quale salveresti?

Antigone. La legge morale del legame affettivo contro la burocrazia e il potere.

  • Il poeta o la poetessa più incisiva, irrinunciabile, qual è?

Scelgo Pier Paolo Pasolini, per il suo essere poeta in ogni aspetto e arte e attività.

Grazie davvero, è un piacere ascoltarti ogni volta.

Grazie a te.