PRO O CONTRO LA BOMBA ATOMICA Elsa Morante

PRO O CONTRO LA BOMBA ATOMICA Elsa Morante

Questo è il testo (con poche varianti) di una conferenza tenuta da Elsa Morante durante il mese di
febbraio 1965 nelle città di Torino (teatro Carignano), Milano (teatro Manzoni) e Roma (teatro
Eliseo).

Ho sentito dire che qualcuno, al sapere in
anticipo l’argomento da me scelto, ha mostrato
una certa perplessità: come se, da parte mia,
questa fosse una scelta, diciamo, curiosa.
Invece, a me sembra evidente che nessun
argomento, oggi, interessa, come questo, da
vicino, ogni scrittore.
A meno che non si vogliano confondere gli
scrittori coi letterati: per i quali, come si sa, il
solo argomento importante è, e sempre è stata,
la letteratura; ma allora devo avvertirvi subito
che nel mio vocabolario abituale, lo scrittore
(che vuol dire prima di tutto, fra l’altro, poeta), è
il contrario del letterato. Anzi, una delle
possibili definizioni giuste di scrittore, per me
sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui
sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la
letteratura.
Allora non c’è dubbio che il fatto più
importante che oggi accade, e che nessuno può
ignorare, è questo: noi, abitanti delle nazioni
civili nel secolo Ventesimo, viviamo nell’era
atomica.
E, veramente, nessuno lo ignora: tanto che
l’aggettivo atomico viene ripetuto in ogni
occasione, perfino nelle barzellette e sui
rotocalchi. Ma, riguardo al significato pieno e
sostanziale dell’aggettivo, la gente, come
succede, se ne difende, per lo più, con una (del
resto, perdonabile) rimozione. E anche quei
pochi che riconoscono l’effettiva minaccia che
esso significa, e se ne angosciano (e per questo,
magari, vengono considerati dagli altri dei
nevrotici, se non dei matti) anche quei pochi,
però, si preoccupano piuttosto delle
conseguenze del fenomeno che non delle sue
origini, diciamo, biografiche, e dei suoi riposti
motivi. (Parlo, si capisce, dei profani, quali
suppongo la maggior parte di noi presenti.)
Pochi, insomma, domandano alla propria
coscienza (mentre proprio qui forse è la vera
“centrale atomica”: nella coscienza di ciascuno):
“Ma perché un segreto essenziale (forse il
segreto della natura) già avvertito fin
dall’antichità in luoghi e epoche diversi, da
popoli evoluti e avidi di conoscenza, è stato
verificato, ritrovato fisicamente, appunto e
soltanto nell’età attuale?” Non basta rispondere
che nella grande avventura della mente, la
seduzione scientifica ha sostituito quella
immaginativa: pure avendo l’aria di una risposta,
questa rimane ancora una domanda, che anzi
rende più impegnativo il problema.
Ma nessuno vorrà fermarsi a credere che
si tratti di un caso; e cioè che si sia arrivati a
questa crisi cruciale del mondo umano solo
perché, avendo, a un certo punto, l’intelligenza
umana, sempre in cerca di nuove avventure,
preso un sentiero buio fra altri sentieri bui, è
capitato che i suoi stregoni-scienziati, in quel
tratto, scoprissero il segreto. No: tutti sanno
ormai che nella vicenda collettiva (come nella
individuale) anche gli apparenti casi sono
invece quasi sempre delle volontà inconsapevoli
(che, se si vuole, si potranno pure chiamare
destino) e, insomma, delle scelte. La nostra
bomba è il fiore, ossia l’espressione naturale
della nostra società contemporanea, così come i
dialoghi di Platone lo sono della città greca; il
Colosseo dei romani imperiali; le Madonne di
Raffaello, dell’Umanesimo italiano; le gondole,
della nobiltà veneziana; la tarantella, di certe
popolazioni rustiche meridionali; e i campi di
sterminio, della cultura piccolo borghese
burocratica già infetta da una rabbia di suicidio
atomico. Non occorre, ovviamente, spiegare,
che per cultura piccolo borghese s’intende la
cultura delle attuali classi predominanti,
rappresentate dalla borghesia (o spirito
borghese) in tutti i suoi gradi. Concludendo, in
poche, e ormai, del resto, abusate parole: si
direbbe che l’umanità contemporanea prova
la occulta tentazione di disintegrarsi.
Si insinuerà che il primo germe di questa
tentazione è spuntato fatalmente nel nascere
della specie umana, e si è sviluppato con lei; e
perciò quanto oggi avviene non sarebbe che la
crisi necessaria del suo sviluppo. Ma questo non
farebbe che riproporre l’ipotesi. E’ nota, e ormai
volgarizzata, la presenza simultanea nella
psicologia umana dell’istinto di vita (Eros) e
dell’istinto di morte (Thànatos). Perfino, a
proposito di quest’ultimo, si potrebbe in teoria,
cioè senza arbitrio logico, leggere le Sacre
Scritture di tutte le religioni nell’interpretazione
presunta che tutte, e non solo quella indiana,
insegnino l’annientamento finale come
l’unico punto di beatitudine possibile. E difatti
alcuni psicologi parlano di un istinto del
Nirvana nell’uomo. Però, mentre il Nirvana
promesso dalle religioni si guadagna per la via
della contemplazione, della rinuncia a se stessi,
della pietà universale, e insomma attraverso
l’unificazione della coscienza, al suo maligno
surrogato piccolo-borghese, inteso per i nostri
contemporanei, si arriva appunto attraverso la
disintegrazione della coscienza, per mezzo della
ingiustizia e demenza organizzate, dei miti
degradanti, della noia convulsa e feroce, e così
di seguito. Infine, le famose bombe, queste
orchesse balene che se ne stanno a dormire nei
quartieri meglio riparati dell’America, dell’Asia
e dell’Europa: riguardate, custodite e mantenute
nell’ozio come fossero un harem: dai totalitari,
dai democratici e da tutti quanti; esse, il nostro
tesoro atomico mondiale, non sono la causa
potenziale della disintegrazione, ma la
manifestazione necessaria di questo disastro,
già attivo nella coscienza.
Adesso non voglio certo opprimervi con
una milionesima descrizione delle evidenze del
disastro, nel loro spettacolo sociale quotidiano;
il quale viene accusato e registrato
continuamente in saggi, conferenze, trattati. E
del resto è così vistoso e persecutorio che
perfino i nostri poveri prossimi animali (cani,
gatti, per non dire gli infelicissimi polli) ne
avvertono sensibilmente lo strazio. No, vi
risparmio questo quadro famigerato: tanto più
che ho già il rimorso di essere venuta qui a
intrattenervi con un argomento così tetro invece
che con una bella fiaba (dato che certi
affezionati si adoperano a smerciare i miei libri
facendoli passare sotto una specie di fiabe!!!).
E tanto meno mi incarico di fare adesso
una predica propagandistica contro la bomba
(fra l’altro, con certi propagandisti di questo tipo
ho delle questioni polemiche). No, povera me,
chi mi darebbe tanto valore, e tanto fiato? E io
stessa, poi, sono cittadina del mondo
contemporaneo, anch’io forse, sono soggetta alla
universale estrema tentazione. E dunque, finché
non me ne sento proprio immune, farò meglio a
non vantarmi tanto.
Però, nello stesso tempo, per merito
della fortuna, io mi onoro di appartenere alla
specie degli scrittori. Da quando, si può dire, ho
cominciato a parlare, mi sono appassionata
disperatamente a quest’arte, o meglio, in
generale, all’arte. E spero di non essere troppo
presuntuosa se credo di avere imparato,
attraverso la mia lunga esperienza e il mio lungo
lavoro, almeno una cosa: una ovvia, elementare
definizione dell’arte (o poesia, che per me vanno
intese come sinonimi).
Eccola: l’arte è il contrario della
disintegrazione. E perché? Ma semplicemente
perché la ragione propria dell’arte, la sua
giustificazione, il solo suo motivo di presenza e
sopravvivenza, o, se si preferisce, la sua
funzione, è appunto questa: di impedire la
disintegrazione della coscienza umana, nel
suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col
mondo; di restituirle di continuo, nella
confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei
rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una
parola, la realtà (ma attenzione ai truffatori, che
presentano, sotto questa marca di realtà, delle
falsificazioni artificiali e deperibili). La realtà è
perennemente viva, accesa, attuale. Non si può
avariare, né distruggere, e non decade. Nella
realtà, la morte non è che un altro movimento
della vita. Integra, la realtà è l’integrità stessa:
nel suo movimento multiforme e cangiante,
inesauribile – che non si potrà mai finire di
esplorarla – la realtà è una, sempre una.
Dunque, se l’arte è un ritratto della realtà,
chiamare col titolo di arte, una qualche specie, o
prodotto, di disintegrazione (disintegrante o
disintegrato), sarebbe per lo meno una
contraddizione nei termini. Si capisce, quel
titolo non è brevettato dalla legge, e nemmeno
sacro e inviolabile. Ognuno è padrone di
mettere quel titolo di arte dove gli pare; ma
anch’io sarò padrona, quando mi pare, di
denominare costui per lo meno un pazzariello.
Come sarei padrona di chiamare pazzariello –
diciamo in via di esempio ipotetico – un signore
che insistesse per forza a offrirmi nel nome di
sedia un rampino appeso al soffitto.
Ma allora, bisognerà porsi una domanda:
poiché l’arte non ha ragione se non per
l’integrità, quale ufficio potrebbe assumersi
dentro il sistema della disintegrazione?
Nessuno. E se il mondo, nella enormità della sua
massa, corresse alla disintegrazione come al
proprio bene supremo, che cosa resterebbe da
fare a un artista (ma da questo momento in poi,
se permettete, come riferimento particolare che
vale per ogni artista in generale, considererò lo
scrittore) – il quale, se è tale veramente, tende
all’integrità (alla realtà) come all’unica
condizione liberatoria, festosa, della sua
coscienza? Non gli resterebbe che scegliere. O
si convince di essere lui nell’errore, e nel torto.
E che quella figura assoluta della realtà,
l’integrità segreta e unica delle cose (l’arte), non
era che un fantasma prodotto dalla sua propria
natura – un trucco di Eros, diciamo, per far
durare l’imbroglio. In questo caso, sentirà
scadere irrimediabilmente la sua funzione, la
quale anzi gli risulterà peggio che vana,
disgustosa, come il delirio di un drogato. E in
conseguenza, cesserà dallo scrivere.
Oppure, lo scrittore si convince che
l’errore non è dalla sua parte. Che non lui stesso,
ma i suoi contemporanei, nella loro enorme
massa, sono nell’equivoco. Che insomma non è,
diciamo, Eros, ma Thànatos, invece,
l’illusionista, che fabbrica le sue visioni
mostruose per atterrire le coscienze e
imbrogliarle, snaturandole dalla loro sola
contentezza e deviandole dalla spiegazione
reale. Così che, ridotti alla elementare paura
dell’esistenza, nella evasione da se stessi e
quindi dalla realtà, loro, come chi ricorre alla
droga, si assuefanno all’irrealtà, che è la
degradazione più squallida, tale che in tutta la
loro storia gli uomini non hanno conosciuto mai
l’uguale. Alienati, poi anche nel senso della
negazione definitiva; poiché per la via della
irrealtà non si arriva al Nirvana dei sapienti, ma
proprio al suo contrario, il Caos, che è la
regressione infima e la più angosciosa.
In questo secondo caso, dunque, e cioè
se riconosce la peste delirante non in se stesso,
ma nella collettività, lo scrittore si troverà
ancora a un ultima scelta. Cioè: o stimerà quella
generale rovina ormai troppo avanzata e
inarrestabile; e se stesso a ogni modo incapace
di resistere alla prova; già avvertendo magari
anche in sé i primi segni del contagio. E allora
sarà augurabile che si salvi, che se ne vada,
magari in una foresta, dove preferisce, in
un’isola oceanica, in un deserto di colonne a fare
lo stilita. Difatti (a dispetto dei retori, dei
cortigiani e degli apostoli della disintegrazione)
è un fatto che tanto per l’igiene quanto per
l’economia, e in sostanza per la vita
dell’universo, sarà sempre meglio un soggetto
reale (fosse anche l’unico superstite) pensante in
cima a una colonna, piuttosto che un
soprannumerario oggetto conciato, televisato e
lustrato per la bomba atomica. Anzi, secondo
una logica intuitiva degli eventi, finché quello lì
resiste a scrivere poesie sulla colonna, la bomba
atomica stenterà a scoppiare.
O infine: ultima e più allegra ipotesi: lo
scrittore si ritroverà ancora una qualche fiducia
nella liberazione comune, insieme con la
certezza di essere lui stesso, ancora, salvo dal
disastro, e capace di resistergli. E in questo
caso, non c’è più dubbio, la sua funzione di
scrittore gli mostrerà ancora, a ogni costo, non
solo socialmente utile, ma più utile di quanto
non lo sia stata mai prima nella storia. Difatti,
nella laida invasione dell’irrealtà, l’arte, che
viene a rendere la realtà, può rappresentare
quasi la sola speranza del mondo. In una folla
soggetta a un imbroglio, la presenza anche di
uno solo, che non si lascia imbrogliare, può
fornire già un primo punto di vantaggio. Ma il
punto, poi, si moltiplica per mille e per
centomila se quell’uno è uno scrittore (s’intende
un poeta). Anche senza accorgersene, per
necessità del suo istinto, il poeta è destinato a
smascherare gli imbrogli. E una poesia, una
volta partita, non si ferma più; ma corre e si
moltiplica, arrivando da tutte le parti, fin dove il
poeta stesso non se lo sarebbe aspettato.
Naturalmente, povera poesia, dovrà
penare per meritare attenzione attraverso i
funebri mercati della, cosiddetta quaggiù,
alienazione, nel furibondo fracasso dei traffici
ufficiali, sacro alla noia dei miseri alienati. Fra
tante prove più dure di resistenza, il rumore
della noia è logorante. E talvolta lo scrittore
avrà voglia di mandare tutti quanti all’inferno,
coi loro giornaletti, i loro cantautori e il loro
ciclotrone. E lui imbarcarsi definitivamente
come Rimbaud, o magari andarsene a stare nel
deserto delle colonne, vicino ai suoi compagni
stiliti. Ma poi, o non lo farà, o dopo ogni fuga,
ritornerà indietro: perché lui, per sua natura, ha
bisogno degli altri, specie dei diversi da lui.
Senza gli altri è un uomo disgraziato.
E così, rimarrà sul campo: là dove ormai
si espande il sistema della disintegrazione, ossia
dell’irrealtà. Ma non ci starà, ovviamente, quale
funzionario o suddito del sistema (se si adatterà
a questo sarà perduto). E neanche come un
semplice estraneo, o testimonio, che riferisce sul
sistema: giacché l’arte, per la sua definizione
propria, non può fermarsi alla denuncia: vuole
altro. Se lo scrittore è predestinato antagonista
della disintegrazione lo è – abbiamo veduto – in
quanto porta testimonianza del suo contrario. Se
ha partecipato, come uomo, alla vicenda
angosciosa dei suoi contemporanei, e ha diviso
il loro rischio e riconosciuto la loro paura (paura
della morte); da solo ha dovuto, come scrittore,
fissare, per così dire, in faccia i mostri aberranti
(edificanti o sinistri) generati da quella cieca
paura; e smascherare la loro irrealtà, col
paragone della realtà, della quale appunto è
venuto a portare testimonianza.
Non più di cinque o sei anni fa (ma se mi
riguardo dalla distanza presente, sebbene da
allora non sia passato poi tanto tempo, mi rivedo
là molto giovane e molto ottimista) io scrissi un
saggio sul romanzo, nel quale, fra l’altro, dicevo,
con parole differenti, circa la stessa cosa che ho
detto ora. E in proposito, paragonavo la
funzione del romanziere – poeta a quella del
protagonista solare, che nei miti affronta il
drago notturno, per liberare la città atterrita.
Anche se meno ottimista di allora, ripropongo la
medesima immagine. Ma se qualcuno ne
preferisce un’altra, meno epica e più familiare,
aggiungeremo quella del Geppetto, quando
mostra a Pinocchio (che ormai ha preso la sua
figura finale di vera persona umana) la spoglia
del burattino, miseramente rovesciata sulla
sedia; e intanto gli mette davanti uno specchio,
dicendogli: “Ecco, invece, quello che tu sei”.
Adesso non mi si fraintenda, per carità
(anche questa, potrebbe capitare!) arguendo, (o
pretendendo di arguire) dalle mie parole, che lo
specchio dell’arte abbia da essere uno specchio
ottimistico. Anzi, la grande arte, nella sua
profondità, è sempre pessimista, per la ragione
che la sostanza reale della vita è tragica. La
grande arte è tragica, sostanzialmente, anche
quando è comica (si pensi al Don Chisciotte, il
più bello di tutti i romanzi). Se uno scrittore per
preservare i buoni sentimenti, o piacere alle
anime bennate, travisasse la tragedia reale della
vita, che si confida a lui, commetterebbe quello
che, nel Nuovo Testamento, è dichiarato il
peggior delitto: il peccato contro lo spirito, e
non sarebbe più uno scrittore. Il movimento
reale della vita è segnato dagli incontri e dalle
opposizioni, dagli accoppiamenti e dalle stragi.
Nessuna persona viva rimane esclusa
dall’esperienza dal sesso, dell’angoscia, della
contraddizione e della deformazione. E le
alternative del destino sono la miseria o la
colpa, la diserzione o l’offesa.
La purezza dell’arte non consiste nello
scansare quei moti della natura che la legge
sociale, per il suo torbido processo, censura
come perversi o immondi; ma nel riaccoglierli
spontaneamente alla dimensione reale, dove si
riconoscono naturali, e quindi innocenti. La
qualità dell’arte è liberatoria, e quindi, nei suoi
effetti, sempre rivoluzionaria. Qualsiasi
momento dell’esperienza transitoria, diventa,
nell’attenzione poetica, un momento religioso. E
in questo senso si può parlare di ottimismo. Per
quanto, lungo il corso della sua esistenza, possa
accadere al poeta, come a ogni uomo, di essere
ridotto dalla sventura alla nuda misura
dell’orrore, fino alla certezza che questo orrore
resterà ormai la legge della sua mente, non è
detto che questa sarà l’ultima risposta del suo
destino. Se la sua coscienza non sarà discesa
nell’irrealtà, ma anzi l’orrore stesso gli diventerà
una risposta reale (poesia), nel punto in qui
segnerà le sue parole sulla carta, lui compierà un
atto di ottimismo.
Al tempo che in Europa si instauravano i
lager, viveva in Ungheria un giovane poeta
ebreo, di aspetto grazioso e allegro, piaceva alle
ragazze, di nome Miklos Radnoti. Per quanto,
non conoscendo la lingua ungherese, io abbia,
dei suoi versi, soltanto quell’idea
necessariamente ridotta e approssimativa che
possano darne le traduzioni, mi sembra di poter
affermare che era con certezza, per natura e per
vocazione, un poeta. Fu ovviamente tra i primi
ad essere preso, e passò il resto della sua breve
vita nei lager, come dire il modello ideale e
supremo della città nel sistema della
disintegrazione. Fino al giorno che un guardiano
del lager lo liquidò con un colpo alla nuca, dopo
avergli fatto scavare la fossa. L’ultima sua
poesia fu scritta proprio là, in prossimità di
quella fossa dove più tardi furono ritrovati i suoi
resti e recuperati i versi da lui scritti nel lager, su
pochi foglietti sporchi. La sua esistenza,
nell’epoca di questi versi, è ridotta allo spettrale
orrore: il lager; e il loro argomento, difatti, è
ormai quest’unico: il lager. In una poesia dice:
“Il quaderno, la lampada di tasca, tutto mi fu
tolto dalle guardie del campo. Scrivo i miei
versi al buio…” Nell’ultima (dove già può
descrivere i particolari della sua prossima
esecuzione, avendo ormai, si può dire, assistito
alla propria fine attraverso quella dei suoi ultimi
compagni) dice: “Ora la morte è un fiore di
pazienza”. E così ci è rimasta, miracolosamente,
la prova, che pure dentro la macchina “perfetta”
della disintegrazione, che lo annientava
fisicamente, la sua coscienza reale rimaneva
integra.
E’ morto nel 1944. Ma io, solo da poco
tempo ho saputo che era esistito. E la scoperta
che questo ragazzo ha potuto esistere sulla terra,
per me è stata una notizia piena di allegria.
L’avventura di questo ragazzo assassinato è uno
scandalo inaudito per la burocrazia organizzata
dei lager, e delle bombe atomiche. Scandalo non
per l’assassinio, che è nel loro sistema. Ma per la
testimonianza postuma di realtà (l’allegria della
notizia) che è contro il loro sistema.
Logicamente, colui che è arrivato nella
città per uccidere il drago, ovvero (tradotto in
termini attuali) lo scrittore che si muove nel
sistema come avversario irrimediabile, sa che
nei punti estremi di crisi lo aspettano dei giorni
precari; e che la sua vicenda, comunque, non è
mai facile né dolce. E’ un fatto che, nel sistema
organizzato dell’irrealtà, la presenza dello
scrittore (cioè della realtà) è sempre uno
scandalo, anche se viene tollerata, durante i
periodi della tregua sociale. Tollerata, e perfino
corteggiata e lusingata. Ma in fondo alle
lusinghe e ai corteggiamenti rimane sempre un
dispetto, che ha poi le sue radici in un senso di
colpa vendicativo e anche in una inconsapevole
invidia. Difatti (e qui si salva ancora la
speranza), la realtà, e non l’irrealtà, rimane il
paradiso naturale di tutte le persone umane,
almeno finché non si siano ancora trasformate
nella struttura stessa visibile dei loro corpi. Non
siano diventate, cioè, dei mutanti, come si dice
nel gergo atomico.
Il sistema della disintegrazione,
logicamente, ha i suoi funzionari, segretari,
parassiti, cortigiani ecc. E tutti costoro, nel
proprio (malinteso) interesse, o perché ingannati
(diciamo così) in buona fede, dal loro stesso
errore, cercheranno di infiacchire le resistenze
dello scrittore con mezzi diversi. Tenteranno per
esempio di accattivarlo o di assimilarlo nel
sistema attraverso la corruzione, la popolarità
scandalistica, i successi volgari, promuovendolo
a un divo o a un playboy. Oppure, al contrario,
si adopreranno a fargli apparire la sua differenza
dal sistema come un tradimento, o una colpa, o
una immoralità, o un moralismo, o una
insufficienza. Andranno dicendo, per esempio,
che non è moderno. Per forza! difatti nel loro
concetto, essere moderni significa essere
disintegrati, o in via di disintegrarsi. Andranno
dicendo magari che non si occupa di cose serie,
né della realtà; esi capisce! giacché il sintomo
principale della disintegrazione, di cui loro sono
succubi o malati, consiste nell’assumere come
realtà il suo contrario.
Come si è detto, dentro il sistema non
possono esistere scrittori, nel senso vero del
termine; però c’è una quantità di persone che
scrivono, e stampano libri, e si potranno
distinguere chiamandoli genericamente
scriventi. Alcuni di loro sono semplici strumenti
del sistema: strumenti, però, di importanza assai
secondaria al confronto di altri, quali gli
scienziati della bomba. Le stanze, gli uffici di
questi scriventi, si possono considerare delle
minime succursali degli stabilimenti nucleari
veri e propri.
Bisogna tuttavia precisare che per buona
parte, gli scriventi di questo tipo non si rendono
consapevoli di servire il sistema; anzi, vogliono
presumere che lo squallore sinistro, e talvolta
ebete, delle loro opere sia da addossarsi a colpa
del sistema, e in ultima analisi, della bomba
atomica; quando invece il fenomeno avviene
proprio all’inverso, come, spero, non occorre più
dimostrare. Comunque, per quanto funesti,
simili complici quasi involontari (almeno nella
loro superficie cosciente) – o diciamo così,
pessimisti – del sistema, sono meno antipatici
dei suoi complici ottimisti. Un genere di
scriventi, questo, fra tutti pessimo. A volte per
totale, e veramente alienato, conformismo, a
volte per cortigianeria, e a volte recitando
cinicamente una commedia interessata, tale
genere di scriventi usa magnificare questo o
quel territorio del sistema della disintegrazione
come il cielo più alto della civiltà umana,
deplorando solo, in certi casi, la minaccia
atomica, e magari facendosi, a parole,
propagandisti contro la bomba,mentre nei fatti,
sono i suoi fervidi campioni. Fra loro, si
ritroveranno i peggiori nemici dello scrittore,
capaci addirittura, in punti estremi di crisi, di
consegnarlo ai guardiani dei lager: peggiori
loro, in certo modo, perfino degli stessi
guardiani, i quali sono degli ossessi, ossia dei
pazzi, e inoltre pagano di persona con l’infamia
(e con l’inferno dell’angoscia), e percepiscono
stipendi molto inferiori a quelli degli scriventi
ufficiali del regime.
Prima di tralasciare questo elenco di
scriventi dentro il sistema, bisogna infine
ricordare l’esistenza pullulante di cenacoli o
scuole o gruppi vari, i quali però hanno tutti una
qualità comune: che i loro prodotti letterari non
si possono assolutamente leggere. Ci si raffiguri,
in via d’esempio, a immagine del sistema, un
pianeta dentro cui la gente più sofisticata si sia
da tempo avvezza a nutrirsi esclusivamente di
pillole (al punto di averne ormai l’apparato
digerente atrofizzato, e ridotto circa alla
funzione di quello d’un insetto). Essa tuttavia
non rinuncia ad avere i suoi tradizionali cuochi,
i quali però devono adeguarsi. E difatti,
raggruppati nelle loro cucine questi cuochi si
affaccendano continuamente ad allestire delle
pietanze: non pietanze vere, si capisce, ma finte,
composte supponiamo di gomma, o di cartone
pressato, o in generale di materie sintetiche, o
anche di peggio. Comunque mai, ovviamente, di
materiale commestibile. Così i clienti sintetici,
che non mangiano, hanno i loro banchetti
sintetici, dove non si serve niente che si possa
mangiare, e cuochi e clienti insieme si sentono
soddisfatti perché modernissimi. Il fenomeno in
fondo è abbastanza innocuo, ma se in qualcuno
procurasse una leggera irritazione (di origine
letteraria o qual altra si voglia), per liberarsi da
un simile inconveniente basterà uno sbadiglio. E
si potrà subito ritornare alle proprie
occupazioni.
Tutti questi scriventi, in generale,
s’incontrano di rado con lo scrittore; e le volte
che si imbattono in lui, lo trattano, secondo i
casi e le persone, in modo diverso: chi da
maledetto, chi da sognatore, chi da cantastorie,
chi da aristocratico, chi da parente povero, chi
da sovversivo, ecc. ecc. E’ facile intendere che
lo scrittore non può trovare molti compagni
suoi, nel sistema. Ma comunque lo scrittore, per
sua natura, è portato a non appartenere a
nessuna società determinata, a nessun gruppo o
categoria ecc. Il suo destino lo inclina piuttosto
all’avventura, ma del resto, la realtà in se stessa
è una straordinaria avventura.
Per solito, lo scrittore tende ad
avventurarsi fra gente diversa, d’ogni sorta e
magari d’ogni risma. E’ inevitabile, comunque,
che fra le classi dominanti e quelle dominate,
preferisca sempre queste ultime. Non per motivi
propriamente umanitari (lo scrittore non è
umanitario, caso mai è ben altro: è umanista),
ma per la solita fatale legge della sua vita.
Difatti, il dominio di una persona su un’altra, se
è stato sempre iniquo, ormai è pure,
definitivamente, acquisito come irreale; giacché
l’uguaglianza fondamentale delle persone è
acquisita nella coscienza (anche in coloro che
presumono di non saperlo). E senza dubbio il
vizio più grave d’irrealtà sta dalla parte del
dominante. Al punto che lo scrittore talvolta ha
il forte sospetto (e la speranza) che il drago
stesso sia un singolo prodotto di questo vizio
parziale e che i dominanti possano magari
allearsi a lui scrittore per affrontare il drago.
Questo è il motivo per cui lo scrittore,
nella pratica della vita sociale e politica, si sente
sempre attirato verso i movimenti rivoluzionari
o sovversivi, i quali proclamano come fine la
cessazione di ogni dominio di una persona su
un’altra persona.
Infine, rimane che le sue compagnie più
vere lo scrittore le trova poi quasi sempre fra
persone di età estremamente giovane, o infantile
addirittura. Soltanto loro, difatti, riconoscono e
frequentano ancora la realtà. Per legge
universale, e peggio che mai nel sistema, la
maggioranza degli adulti sono contaminati più o
meno dall’irrealtà, e quindi, ostili.
In ogni modo, specie quando incomincia
a farsi vecchio, e le sue gambe sono stanche, lo
scrittore spesso si ritrova solo. Potrebbe anche
ritirarsi in campagna, ma in fondo gli piace di
più di stare in mezzo alla città, fra tutti quei
disgraziati che corrono per distrarre, in qualche
modo, il drago. Allora lo scrittore esce dalla sua
stanza, e cammina per quelle strade maledette,
cacciato dal traffico e dai rumori, a momenti
tentato dall’idea di andare a rinchiudersi in un
ospizio di vecchi e là finire la sua vita. Ma in
certi giorni fortunati, gli succede di pensare fra
sé, in mezzo al traffico, a una storia o a una
poesia da scrivere, e allora non sente nemmeno i
rumori, e va distratto, miracolosamente, fra
migliaia di automobili senza essere investito.
Così potremmo dire, scherzando, che ha
superato perfino la prova dei santoni indiani,
che devono rendersi capaci di pregare, come
dire di ascoltare il silenzio religioso della loro
intimità, in mezzo al chiasso e ai commerci del
tempio.
A questo punto, mi ricordo di quello che
disse il maestro di poesia Umberto Saba: che in
ogni poeta c’è rimasto sempre un bambino, il
quale adesso convive con l’adulto, e si
meraviglia di quello che succede all’adulto. Se
ne meraviglia, ma anche, io mi permetto di
aggiungere, ci si diverte.
Ma infine, che razza di romanzo o di
poesia dovrà scrivere il Nostro per fare, come
dicono i giornali, la sua lotta? La risposta è
semplice: scriverà, onestamente, “resta da fare
la poesia onesta”.
Però, basterebbe dire la poesia; perché,
se è poesia, non può essere che onesta. Un
poeta, in quanto tale, non può non essere onesto.
Come dimostrato dalla storia, può essere magari
brutto, deforme; può avere per conto suo i
peggiori vizi: essere un ubriacone, uno
malamente, come dicono a Napoli. Può essere
sporco, anche puzzare. Questi sono sempre stati,
e sono, affari suoi. Ma in quanto scrittore, non
può venir meno a queste condizioni necessarie:
l’attenzione, l’onestà e il disinteresse. E tutto il
resto è letteratura. Già, a proposito, e che sorta
di linguaggio dovrà adoperare? Dialetto,
industria, quale koinè? Quale stile, quali
semantemi, quale carattere tipografico? Pro o
contro le maiuscole? Pro o contro la
punteggiatura? Ma lasciatelo scrivere come gli
pare, che tanto il primo inventore dei linguaggi
è stato sempre lui! Perché adesso venire a
sfruculiare un uomo con simili problemi (che
interessano casomai i glottologi, i filologi e così
via?). Qui si tratta pro o contro la bomba
atomica! Contro la bomba atomica non c’è che
la realtà. E la realtà non ha bisogno di
prefabbricarsi un linguaggio: parla da sola.
Perfino Cristo ha detto: non preoccupatevi di
quel che direte, o di come lo direte. E’ la realtà
che dà vita alle parole, e non il contrario.
E che è la realtà? Non ci mancava altro!
Se uno mi fa questa domanda, è chiaro che non
è mio lettore. Durante questi anni, in saggi,
articoli, risposte a inchieste ecc., a costo di
sembrare una maniaca, non ho fatto che parlare
di questo argomento, voglio dire l’argomento,
più o meno, che è anche il senso di questa
conferenza. E tentavo di spiegare che cosa sia la
realtà; ma purtroppo dubito di esserci riuscita,
giacché questa è una cosa che si capisce solo
quando la si prova, e quando la si prova, non si
ha bisogno di spiegazioni. Una volta un novizio
chiese a un vecchio sapiente orientale: “Che
cos’è il Bodidarma?” (che significherebbe
approssimativamente l’Assoluto o simile). E il
sapiente, pronto, gli rispose: “Il cespuglio in
fondo al giardino”. “E uno che capisse questa
verità” domandò ancora, dubbioso, il ragazzo,
“che cosa sarebbe lui?” “Sarebbe” rispose il
vecchio dandogli una botta in testa, “un leone
con la pelliccia d’oro”.
Copyright Elsa Morante 1965, 1984
Riprodotto in “Linea d’ombra” n. 7